Fratellanza ardua, malgrado lo sport - Razzismo interno
Ricordando Totò Schillaci, un importante acquisto dall'estero per la Juve di allora.
Adesso che non è più tra noi, si è trasformato per molti, anche dirigenti calcistici di Torino, ex giocatori della Juventus, giornalisti e “tifosi” che lo apostrofavano terrone o ladro di pneumatici, in un grande fratello, non quello della TV, ma uno d'Italia.
È una storia già vista cento volte e più.
Pazzescamente efficace nei Mondiali del 1990, sarebbe potuto diventare Campione del Globo, ma per una serie di eventi sfortunati (se così vogliamo chiamarli, «eventi», e seguendo le inutili, ma divertenti, leggi del fato, così vogliamo definirli, «sfortunati») non ha potuto alzare la coppa più importante dello sport più seguito. I suoi occhi quasi fuori dalle orbite ad ogni momento di stupore sui campi di calcio di quella stagione non si possono dimenticare: che si pietrificassero per un magnifico goal o una punizione non data. I suoi movimenti plastici eppur veloci, il suo esser longilineo e al posto giusto nel momento giusto, incredibilmente guizzante, ricorda un altro calciatore. Sapete già di chi parlo: Paolo Rossi. Quest’ultimo, come lui, nei campionati interni forte, molto forte, ma come lui, magari non tra i primi per continuità o tra i più amati per lunghissima carriera sotto una sola casacca.
Rossi fu strepitoso nel 1982! La sua rapidità e il suo intuito fecero la differenza. Campioni del Mondo! Diventammo Campioni del Mondo in Spagna. Anche io mi sentivo un campione, come tutti i ragazzini dell'epoca nello Stivale.
Schillaci, con caratteristiche molto simili a quelle dell’atleta toscano, stava replicando tutto. Stava replicando anche quel finale di Madrid, ma non fu possibile.
Un’Estate Italiana, della Nannini e di Bennato, fu premonitrice di gloriose partite per il Tricolore, ma non solo: appariva cucita addosso al giocatore siciliano.
Quest'ultimo (lo potevamo appena appena percepire, coloro che non seguivamo assiduamente le vicende calcistiche) era giunto fin lì ingoiando tanto di quell'odio razziale che non si può immaginare se non si frequenta il settentrione, in condizione non privilegiata, per un buon lasso di tempo, diciamo almeno 5 o 6 mesi.
Eppure, in questa nazione i meridionali hanno dato, abbiamo dato, un apporto almeno pari a quello dei settentrionali per ottenere quei tributi oltreconfine che resistono (con molta difficoltà) alla decadenza, che si avverte, morale e materiale odierna.
La solidarietà familiare, la facilità nel fare amicizia, la spontaneità, la gentilezza con gli estranei, la fame di conoscenza quando ci si rendeva conto di non esser sufficientemente preparati, e adesso maggior distacco, complicazioni per conoscersi in presenza, astio per nulla, e poi c’erano realtà produttive invidiate ovunque. Oggigiorno parecchie grandi industrie chiuse, perse, vendute o svendute, maestranze artigiane quasi svanite. Le piccole produzioni agricole trent’anni fa erano biologiche senza saperlo… Non che ogni aspetto del quotidiano fosse rose e fiori, proprio per niente!
Solo che non tutto era da buttare.
In quell’Italia c’erano tanti meridionali quanto settentrionali a costruire, mattone dopo mattone, e non era giusto leggere al nord «non si affitta ai meridionali», come non era giusto che leggesse lui, sotto casa, «terrone di merda», come non era giusto che urlassero me «te-rro-neee!» gli avventori di un bar di periferia che avevo vicino casa a Brescia, quando da giovane vi andai a studiare per tre anni e mezzo. Non era giusto che per un presunto episodio di furto gomme d’auto, riguardante un parente di Totò Schillaci, quest’ultimo venisse additato come ladro di pneumatici; quando guadagnava così tanto che, se avesse voluto, si sarebbe potuto far cambiare un intero treno all’autovettura ogni giorno. Per prenderlo in giro e provare a disonorarlo, fu portato un copertone al Franchi di Firenze, in occasione d’un incontro, e gli sfottò non mancarono a Bari. Tali situazioni, tuttavia, rappresentavano la coda delle umiliazioni sorte al nord ove Bettega, in principio, poco delicatamente cercò di “rifilarlo” al Toro per ingaggiare Luiz Antônio da Costa, detto Müller, e un calciatore francese, colonna sportiva storica e dirigente della Juve, un certo Michel Platini, asserì pubblicamente di non conoscerlo.
Se non ci si ricorda ogni giorno dei fratelli meridionali, e non si chiede loro scusa, se non si chiede a noi scusa, per le offese continue e le malvagità messe (qua ci sta!) in campo, si eviti pure di chiamare Totò Schillaci fratello d’Italia o Salvatore della Patria.